Genova: silenzi, pensosità, scritture in cammino

Il seminario residenziale si è tenuto dal 27 e 28 settembre a Genova. Si è trattato di una proposta propedeutica alla scrittura di sè, fra cammino, scrittura e contemplazione, per donarsi quel tempo personale che troppo ci sfugge in questo nostro vivere così frettoloso.
Hanno partecipato 15 donne, è stato caratterizzato da un’alternanza di interventi del Prof. Demetrio sul senso del silenzio e del cammino, di passeggiate nei percorsi verdi del Santuario di Nostra Signore del Monte e di brevi esercitazioni di scrittura autobiografica, che hanno spaziato dalla rievocazione dell’infanzia all’esplorazione delle varie forme di diario.

I testi che seguono sono stati realizzati durante il seminario.

Aprendo gli occhi
Aprendo gli occhi, ritrovo voi, cipressi, che ho lasciato ieri sera al limitare del bosco. Continuate ad essere più scuri del vostro nuvolo sfondo, ieri sera rossastro ed ora livido.
Da pure sagome piatte, ora prendete corpo, la vostra superficie si gonfia in bugnature blu e nella primissima luce del mattino il vostro profilo si arrotonda e si definisce al tempo stesso.
Dalla finestra con le persiane aperte sopra il mio letto, gli occhi si abbassano, e prendo coscienza del meraviglioso che preme sul mio stomaco. Lo contemplo, in adorazione, quest’incarnato divino, pesante e ansimante, la piccola bocca socchiusa, a intravedere quei pochi denti già utilizzabili ed un paio nascenti.
In questo stare semplice, mi attraversano la gioia e l’orgoglio di sentirmi come una Madonna del ‘500, carnale e beata.

Sono venuta alla luce quando mi sono insediata nel grembo di mia madre. Nonostante la sensazione di essere il prodotto di qualcosa andato storto, l’ambiente era caldo, lo spazio comodo, i rumori fisiologici mi cullavano. Dopo tanti dolori, quell’utero alla sua quinta gravidanza aveva allentato le tensioni per acquisire un vigore rassicurante. Ascoltavo ciò che mi giungeva dal mondo esterno tramite onde sonore ovattate: il rullio della lucidatrice per pavimenti, le note dei primi brani dance alla radio.
Arrivò l’attesa serata. Mia madre, da brava casalinga, riassettò la cucina, fece addormentare i miei fratelli, chiese a mio padre di non svegliarli fino al mattino successivo, quando avrebbero trovato il fratellino fresco fresco, già pulito e vestito.
(si, perché Angela, la fidata ostetrica, era sicura che sarei stata un maschio).
Mio padre, in preda all’eccitazione, non rispettò la richiesta e, dopo aver accompagnato mia madre e me alla Casa di Cura Piccole Figlie, tornò a casa e la prima cosa che fece, fu svegliare i miei fratelli – salvo poi passare tutti quanti la notte insonne nell’attesa.
Mia madre ed io ce la cavammo benone – lei era ormai un’esperta.
Certo, per me il passaggio fu a dir poco brusco: la luce sparata negli occhi dopo tanto buio, il bruciore ai polmoni nell’inspirare la prima aria, il tremore della sensazione di cadere nel vuoto, il rumore assordante. Cercai salvezza nel seno, ma trovai al suo posto trovai una fascia: mia madre non aveva mai allattato e non avrebbe certo cominciato con me. Nella culla un biberon, omaggiato dalla Mellin. Ma le braccia materne erano morbide, calde e profumate di bucato.
balthsar neuman chor

Nell’ombra ascoltavo i miei passi
Le sagome dei cipressi neri stagliate sul cielo di nubi rossastre: guardandoli, abbandono l’ultimo riquadro scoperto, per addentrarmi nel bosco. Un bosco che è un tetto, stasera, perché l’intreccio dei rami ci protegge dalla debole pioggia e fa sì che possa abbassare il cappuccio del Kway per godermi l’aria sui capelli.
Spira un vento leggero, e se è vero che l’aria è coraggio, spero che la brezza mi porti dal mare questo regalo, stasera: il coraggio di battere le ciglia e riaprirle sul mio passato, sui ricordi creduti svaniti, sui dolori superati, ma mai dimenticati.
I nostri passi scricchiolanti sulle foglie, quindici donne in una fila ordinata e silenziosa, quindici peregrine assorte.
Dove ci porteranno questi passi?
A riviere i traumi dell’adolescenza? Ho paura, ho mal di pancia. In realtà, vorrei ritrovare quello stesso incanto, a fatica raggiunto nella maturità, anche in un passato che a lungo ho creduto infelice.

Passeggiata a Nostra Signora del Monte #1
Oggi la Liguria mi sorprende con l’ossimoro delle pietre bagnate di pioggia del muro a secco che costeggia la salita. Così lontani dai roventi muri d’orto dei meriggi montaliani, nei quali ripongo un’immagine cara di questi luoghi, questo muro spento e coperto di muschio mi dipinge un grigiore estraneo al mio sentire vacanziero.
La cinta muraria ci conduce alla prima sosta, di fronte a un cimitero splendido, così come nella tradizione di questo tratto di costa. Un cimitero che è ossario e frutteto, memento mori e celebrazione della vita, natura morta con tripudio di cibi e teschi.
Poco più in là, le pietre cedono il passo al cemento e proprio sulla sommità del nostro percorso, là dove basta sollevare lo sguardo per vedere navi che galleggiano tra le nubi, la potenziale bellezza che ci circonda è profanata da un’incuria intollerabile, dolorosa. Salviettine, scatole di sigarette, brandelli di sacchi di plastica, fazzoletti e altri rifiuti per terra ci parlano di amori consumati in fretta, amplessi a pagamento, perversioni attutite dalla vista mare.
Allora me lo immagino di notte: un intimo belvedere, con le lucine delle case accese sul versante del monte, come un presepe, e le giovani coppie in fuga a nascondersi qui, l’auto e la volta celeste come alcova.