Del silenzio

Riceviamo e pubblichiamo un contributo di Roberto Taioli.

Un oggetto su cui calare lo sguardo e cogliere nel gesto della prensione. Un utensile di cui disporre, un compito da svolgere, una comunicazione da trasmettere. Siamo consueti classificare il nostro vissuto con la collezione di oggetti che ci circondano e ci attorniano. Noi stessi siamo classificati, misurati e catologati  in un sistema di oggetti. Il mondo è un oggetto in quanto lo avverto come fuori di me, esterno,  ed io mi pongo con esso in una relazione di estraneità, sono fatto, sono costruito dal mondo.
Le voci mi circondano, il frastuono mi attraversa. Mi sporgo alla finestra. La pioggia scivola sulla strada e le rade automobili della notte sembrano passarci sopra come su di un tappeto fluente, fanno un rumore che non è più solo quello del motore ma un composto strano ed inedito, ove l’infittirsi  dell’acqua che cade,  prevale  sul secco procedere del mezzo meccanico, come se ne venisse assorbito, permeato, trasformato. Da lontano una voce confusa  attraversa la strada e squarcia la notte, uno strappo, in un urlo indicibile. Un ubriaco  forse, una vita certamente e una voce straziata. Una musica lontana riaffiora come un lampo dal buio, rimanda ad una finestra, ad un effluvio di note, ma è anche qualcosa che stenta ad imporsi, riemerge , sprofonda. Pare morire e poi ritorna. Qualcosa mi raggiunge, mi tocca, mi sveglia, ma mi sfugge. Scivola su di me e slitta lontano. Tutto è diventato inafferrabile, non si fa prendere. Sono posto in una dislocazione, abito in una terra di nessuno. Il mio mondo è un labirinto e la métis, la ragione intraprendente, non ne viene a capo. Patisco una non spiacevole impotenza.
C’è qualcosa che finalmente non domino, che si impone  e suscita solo un flusso indistinto, un miscuglio dove la sonorità è plurale. Mi raggiungono non degli eventi netti ed isolati, ma un insieme indistinto, dove la nota più alta e più bassa non sono predefinite. Sento e mi lascio raggiungere, non scelgo e non separo.
Sconcertante esperienza  dell’ un’unità nella molteplicità, del permanere e del variare.
Il silenzio non esiste in natura come un minerale o una placca geologica, non ha consistenza ed esistenza se non nella mia intreriorizzazione.
Dovunque abita il silenzio, anche in un universo affollato di rumori. Come posso ascoltarlo allora, come posso sentire ciò che non ha voce, non ha codificazione e gerarchizzazione?
Come posso sentire ciò che non è udibile  e non sentibile? A questi interrogativi non c’è risposta se rimango nello stadio della coscienza ordinaria, della vigilanza razionale.
Siamo inseriti ed installati in una condizione orizzontale e fatichiamo a dislocarci diversamente. Questo spiega tra l’altro perché dallo stato del sonno manteniamo una larvata memoria ed emerga in noi solo una piccola parte della ricca esperienza alla quale ci abbandoniamo nella condizione del dormire.
Il silenzio profondo si avvicina a questo passaggio degli atti indecifrabili, verso i quali siamo passivi. La volontà retrocede, si disarma, come attraverso un estremo gesto e sussulto dell’epoché che ne sospende l’agire. Spentosi il suo faro, entriamo nella luminosa notte della percezione pura e senza nome, delle cose che non hanno volto e dei rumori che non stridono. In questo albeggiare prescientifico si ricrea in noi il fragile stato dell’armonia, sempre minacciato e intaccato peraltro dalle incursioni del mentale che è in noi sopito ma non estinto. Esso tende a reintrodurre la ratio là dove si è allargato in noi lo spazio dell’avvertire passivo che apre porte e possibilità di ascolto fino allora a me ignote. Sensi soprannaturali(1) si affiancano e si combinano ai sensi ordinari e li affinano per un più intenso e nuovo sentire . Si attiva una forma di vita spirituale del corpo. Come posso pregare senza  proferir parola o ascoltare parole che non mi giungono con la voce, o comprendere segni insorgenti e linguaggi provenienti da situazioni che per altri sono mute ed inerti? Come posso far sì che il silenzio sia per me non solo uno stato di vuoto, una assenza, una mancanza, ma invece una sorgente che mi riorganizza e mi ricomprende?  Fino a che punto la spogliazione di sé, la Kenosis  mi riapparenta con un terreno che non sia il nulla? Quale esercizio richiede  il silenzio per non essere sospinto ed estromesso ai margini della mia vita?  A che cosa rinuncio e cosa acquisisco lasciandomi  attraversare e plasmare da questa condizione? Perché ne abbiamo paura? Perché pare sgomentarci e smarrirci come una esperienza estrema, quasi fosse una pre-soglia della morte(2)?
Non rispondiamo ma, come per una coazione a ripetere, cerchiamo  ancora una volta di gerarchizzare e ordinare un’esperienza che conosce forse  l’artista nel tempo dell’attesa, quando la sua opera non si è ancora staccata dal magma della vita profonda, dalle onde della Lebenswelt, non si è ancora depositata, o l’uomo orante e contemplativo, quando nell’inquietudine non trova ( e forse non troverà) le parole per sfiorare la porta di Dio, qualunque esso sia. L’esicasmo della preghiera incessante  si distende intervallata dal tempo momentaneo  della  ripresentificazione che s’inserisce  e s’accorda sul ritmo della  respirazione .  O l’uomo che sosta, si ferma, non corre più verso una oggettivazione falsamente liberante, ma che in realtà lo fa schiavo perché ne atrofizzza la vitalità incardinandolo in uno spazio cartesiano. L’homo viator è in  eterno  cammino, di cominciamento in cominciamento, come scriveva Gregorio di Nissa.
Il silenzio dice molte cose ma non sempre quelle che vorremmo ci fossero dette e che ci aspettiamo. Le sue sorgenti non sono lontane da noi, ma proprio  per questo ci sfuggono, perché è più facile cercare fuori di noi che in noi. Esso ci richiama ad un esercizio, una askesis che tuttavia non può né deve assumere i contorni di qualcosa di rituale, di preordinato.
L’educazione al silenzio non è scritta, può solo compiersi, attuarsi nei conati di verità che strappiamo al dominio della burocrartizzazione anche della vita interiore.

Nota 1 – L’’espressione è stata coniata da Cristina Campo nel saggio Sensi soprannaturali, in C. Campo, Gli imperdonabili,  Adelphi, Milano, 1987, pp. 231-248.
Nota 2 – Il silenzio di cui stiamo argomentando è un silenzio di rilevanza ontologica ma pur possibile nell’esperienza umana; esso non va  perciò confuso né degradato a mera sospensione della parola, a tal riguardo  si rimanda alle riflessioni di Francesc  Torralba  Rossellò . “La maggior  parte delle volte il slienzio dell’l uomo è meramente epidermico. Ha un carattere provvisorio e transitorio, è come una pausa, un’interruzione tra parola e parola, , tra discorso e discorso. E’ il silenzio del viaggiatore che si dirige verso la sua meta. Egli cammina in silenzio, si siede  nell’autobus in silenzio, però il suo silenzio è, nella maggior parte dei casi, esteriore. Ancorchè stia zitto, non smette di pensare a quel che deve fare, a quel che farà o a quel che deve dire alla moglie o ai colleghi di lavoro. Il silenzio epidermico è il più praticato, però è il meno profondo e il meno edificante per tutti, in F. Torralba Rossellò, Volti del silenzio, traduzione dal catalano a cura di Matilde Spiniello, Edizioni Qiqajon, Maggnano (BI), 2012, p. 153.