Qualche esercizio contro il cervello rettile
di Duccio Demetrio
Demoni assopiti
Stare in silenzio, entrare in luoghi muti o taciturni, suscita quasi sempre il nostro imbarazzo. Si attiva un segnale d’allarme (più o meno squillante, a seconda delle nostre abitudini) che ci impone di cercare la causa e la fonte di tale anomalia. Persino quando siamo soli, ci protendiamo per cogliere una fonte sonora, una voce, almeno un fruscio. E ciò ci tranquillizza, certo in ragione della loro qualità più o meno rassicurante.
Il silenzio evoca il tempo mitico e archetipico di un pianeta in attesa che l’uomo apparisse, iniziasse a parlare. Non a starsene in silenzio, in attesa che il linguaggio rompesse quel silenzio cosmico. Erroneo è pensare che quella dimensione più non ci riguardi. Ci impaura ancora invece, e lascia attoniti. Ben lo sa chi abbia vissuto mai l’esperienza del deserto, dell’alta montagna o sia andato alla deriva. Su una barca a vela, nella calma piatta di una notte. Sia appassionato di speleologia.
La mente umana, in simili circostanze, rivela ancora tutto il suo legame con il cervello “rettile” quando non riesca a sopportarle. Il più arcaico, il quale è ancora lontano dall’essersi piegato del tutto ai desideri della ragione. Non è in grado di accettare il silenzio, per lo meno estremo. La nota sede neuronale, dove si annidano ancora gli istinti primordiali ( per qualcuno il buco nero del nostro inconscio), ci segnala che occorre stare all’ erta dinanzi a tale condizione: il silenzio è preludio di assalti imprevisti. Di qualche minaccia. Gli uccelli tacciono, un nemico potrebbe avvicinarsi a passi felpati. Senza risalire al neolitico, una strada di notte, tanto più se solitaria e buia, ci fa lo stesso effetto. Anche in condizioni di massima sicurezza, le più tranquillizzanti. Il serpente delle origini non dorme mai. Si è assopito e il silenzio sembra ricordargli quando – bisbigliando ad Eva quelle poche parole ingannatrici – fu causa della nostra rovina. I fantasmi peggiori riappaiono in queste circostanze, mai alla luce del sole e, ovviamente, ci riferiamo a quelli che abitano nei nostri più intimi sotterranei labirinti della coscienza. Assolutamente personali e segreti, li portiamo in giro per il mondo, ovunque si vada. Sono questi i demoni dormienti insensibili ai rumori; sempre sul chi vive e pronti a risvegliarsi infastiditi da troppo silenzio. Ovunque ci si trovi, in auto, piuttosto che immersi in una lettura, cerchiamo di allontanarlo con tutti mezzi. Come un insetto molesto. Non perché possa esercitare effetti calmanti, bensì, al contrario, fin troppo ansiogeni. Con la scusa che ci addormenteremmo alla guida, piuttosto che in poltrona, facciamo di tutto per stare in compagnia di ogni nemico e avversario del silenzio.
Il rumore come necessità vitale
Del resto, i sottofondi musicali sono diventati la cornice indispensabile (dai ristoranti agli aeroporti ; dai supermercati, agli ospedali) di questi non luoghi pubblici o domestici, semoventi o statici; dove l’ ansia da silenzio potrebbe coglierci all’ improvviso: con esiti devastanti per le consumazioni, le attese, gli acquisti, la tendenza dei pazienti (non a sufficienza sedati da Mozart) a chiamare l’ infermiere di turno. Sono antidoti escogitati per lenire le millenarie angosce esistenziali, che ci spingono a preferire la città ad una casa in campagna. Un collega noioso e troppo facondo, piuttosto che un poco di solitudine in una pausa pranzo. Un urlo sguaiato contro nostro figlio, o chicchessia, a un’ interruzione dei contatti, talvolta più salubre e educativa di tante chiacchiere. Come se le parole, concitate o sussurrate, fossero sempre in grado di risolvere i nostri problemi. Strana e inconsueta ci sembra dunque la vita, anzi troppo inquietante, senza rumori. Disertata dalle voci e dalle parole. Se siamo tra gli altri, quale sia il luogo e in relazione al carattere nostro più o meno socievole, facciamo di tutto per conversare. Per violentare o stuzzicare, con l’ offerta pretestuosa di una golia (ah… come erano più seduttive e silenziose in un tempo remoto le sigarette!), la eventuale propensione al silenzio degli altri. Le donne ne sanno qualcosa più dei maschi. Ci sentiamo persino dei buoni samaritani quando dinanzi a noi, o di fianco, il nostro vicino stia guardando la campagna scorrere con il volto rivolto verso un punto indefinito e ci prodighiamo per ricondurlo sulla terra. E la terra è chiacchiericcio, frastuono, rimbombo, eterno ronzio. Un viaggio in treno, insomma, può rivelarsi un supplizio per chi ami silenzio. Almeno qui. Chi non ne possa fare a meno (a Costantinopoli, nei primi secoli ci chiamavano “silenziari” e nostro era il compito di far tacere il pubblico prima di uno spettacolo) appartiene ad una specie in estinzione, che si ostina a parlare, ad ascoltare la radio od accendere la Tv, soltanto quando è strettamente necessario. Noi amiamo il silenzio per educare il cervello rettile a non rivendicare più le sue ragioni ancestrali. Se i timori e i sospetti, qualche riga più sopra, li riconducevamo agli spazi naturali o urbani troppo silenziosi, ora questi si spostano verso chi è indifferente ai ripetuti tentativi di coinvolgerlo in un discorso. Se gli o le neghiamo il racconto della nostra vita durante un ritardo, per rompere la monotonia del viaggio, veniamo giudicati misantropi e villani.
Neo-silenziari
In attesa che si aggiungano in coda ai treni le carrozze del silenzio vanamente promesse, potremmo rapidamente concludere che tante sono le esperienze e le possibilità fonte di cura, di benessere e d’ aiuto, naturali o allestite, tranne una: il silenzio. L’ inimicizia verso questa circostanza ambientale o umana è, al giorno d’ oggi, ampiamente dichiarata. Non si tratta di idiosincrasie individuali. Ci sono silenzi imbarazzanti, colpevoli, menzogneri; pause difficili, palesi e pieni di sottintesi. Ogni ambiente, famigliare o di lavoro, allora, è ben più silenzioso di quanto sembri. La considerazione inevitabile è che non sappiamo gestire il silenzio per ragioni morali e non soltanto di carattere operativo. Tutto congiura per dimostrare a chi voglia gustare e apprezzarne la bellezza, avendone il diritto e il dovere; a chi ne ha bisogno nella vita privata o nel lavoro, che il suo destino è appartenere ad una minoranza sparsa e ormai in estinzione che si pone la questione. Che vuole fare qualcosa, oltre al cercare lontano in una solitudine voluta quanto predilige, per apprendere ad essere silenziosi quando occorra e a non esserlo affatto in altre circostanze. Ma, a scanso di equivoci, è bene non rinfacciare alla parola tutte le colpe. Un poeta ha scritto di recente :
Il silenzio è nelle parole, ed è condizione imprescindibile per ascoltarle. In esso la parola prende corpo, e questo corpo le dà voce risuonando nel mondo quell’assenso alla vita che esercita sé stessa. E’ un silenzio discreto, che non s’impone, si concede solo a seguito di un permesso. Bisogna lasciarlo essere, senza aspettare né volere che sopravvenga. Quel silenzio non sopravviene, semplicemente è, accade; semplicemente si mette in movimento e accoglie in sé la parola, rivitalizzandola, cancellandone ogni segno di stanchezza. Quando succede allora la parola si apre come nuova, entra nel flusso della poesia e nel suo corso travolge ogni approdo di senso.[1]
Il silenzio, egli ci dice, non va cercato soltanto da chi lo insegua. Là dove la folla si dirada, dove ogni chiasso si attutisce nella lontananza, dove le parole non abbiano più motivo d’essere. L’ autentica “vita silenziosa”, va edificata prima di ogni cosa dentro di noi, come forma di resistenza non violenta e civile. Occorre fare esercizi di silenzio, insieme ad altri e appartati. In una visione più lirica e meno pratica, tecnologica, dell’ esistenza e del rapporto con gli altri. Senza che con questo, nel nostro isolarci interiore si venga meno ai compiti civili che l’ impresa, anche sociale, di opporsi agli annichilimenti frastornanti vigenti e vincenti dovrebbero stimolarci a perseguire.
La via dell’ arte, della letteratura, della religiosità, del pensiero, qualora vengano perseguite, sono già altrettanti rimedi, oltre che sollievi momentanei, contro quel nemico potente, invasivo, seduttivo.
Dopo tutto, si tratterebbe di rispettare di più poche regole, di abbassare i volumi e i toni, di moltiplicare le aree dove il rumore torni ad essere suono, di garantire anche nei luoghi del lavoro delle zone protette. Per stare con se stessi, meditare, raccogliersi con chi è della nostra stessa opinione. Chi cerca il silenzio, è questo che desidera.
Parole abitatrici del silenzio
Occorre creare le condizioni idonee affinché il silenzio essa accada e venga accolto e diffuso nelle nostre pratiche cliniche, educative, terapeutiche come metodo di aiuto. Come un complemento ineliminabile delle pratiche di cura. Non soltanto però come allestimento di circostanze rispettose del dolore. Una opzione simile deve incontrarsi con modalità diverse da assegnare alle parole che innanzitutto usiamo. Pronunciate o scritte. Nel porgerle, sceglierle, cercarle, ascoltarle ovviamente, ma imparando nondimeno condurre su di sé degli esercizi appropriati. Prosegue così Angelo Andreotti:
Il silenzio allora dà spazio alla parola, liberandola dal claustrofobico percorso tra principio e fine, e pertanto esce dalle regole orientate della narrazione per adeguarsi al flusso discontinuo della descrizione. Lì, la parola non è più (o non è soltanto) espressione del logos, del racconto, ma semplice relazione, perché la parola poetica non porta conoscenza, ma porta a conoscenza.
La conversazione pacata, il colloquio, la preghiera anche ad alta voce, il canto corale, la lettura, la scrittura di un diario, la contemplazione di un paesaggio o di un quadro, i momenti di amore o di cordoglio sono momenti intessuti di silenzio. Ne hanno necessità e lo esaltano lavorando sulle parole interiori o offerte a chi possa intenderle. In particolare voglio soffermarmi sulla scrittura come generatrice di silenzio.
Scrivere e parlare nel silenzio
Ogni foglio, ogni superficie scritta da noi è il nostro specchio. Il riflesso assai poco veridico della nostra immagine, che tuttavia non riusciremo mai, del tutto, a mettere a fuoco. La scrittura di sé è una via maestra per chiunque intenda conoscersi e, allo stesso tempo, l’ esperienza di una mancanza incolmabile. Non ci basta mai il tentare di dare contorni definiti ai nostri profili cangianti nel corso del tempo. Per scrivere, il silenzio, come luogo interiore imbevuto dei ricordi che non hanno più le voci che ebbero, come stato d’ animo che a nient’ altro dà ascolto se non al fruscio della penna, ci è indispensabile. Il silenzio dello scrittore, lo sia di mestiere o per solo diletto, accompagna il vibrare delle dita. Riesce a cancellare i rumori, si impone sopra ogni cosa per consentirci di vivere la scrittura come un’ avventura meditativa. Unica ogni volta e ripetibile all’ infinito, sempre ritrovata in parole nuove. Le pagine cui nella lentezza abbiamo dato un volto, somigliante al nostro, o a quello di un altro di cui raccogliamola storia e trascriviamo come antichi scrivani, sono destinate a lasciare ad altri ancora, a lettori per caso o affezionati o curiosi di noi, quei minuscoli graffiti che, oltre a tracciare le rughe della nostra storia, ci forniscono indizi per interpretarne gli intrecci. Scriviamo per allontanarci da vocio, dall’ insopportabilità degli stridori troppo acuti, dagli assalti e dalle trappole che la disattenzione verso di noi, di cui siamo i primi attori, dissemina ovunque. Scriviamo e, nell’ adempimento della scrittura, si genera quel silenzio tutto speciale, che pervade la vita dello scrittore, della scrittrice anche alle prime armi. Di coloro che nei omenti difficili dell’ esistenza andrebbero aiutati a comprendere il valore della scrittura: non solo consolatorio, perché scrivere accende energie vitali, ti trasferisce nel mondo, ti decentra. Rende una solitudine non più accettabile, piuttosto un’ occasione da non perdere.[2]
Non solo dunque parole sonore abbiamo da scambiarci tra medici, operatori sanitari, psicologi e pazienti, nei climi e negli intendimenti descritti. Occorre apprendere non soltanto l’ arte dell’ empatia, dell’ ascolto, dell’ attenzione. La scrittura è una mediatrice silenziosa dello scambio di parole, da rileggere reciprocamente, per comprendersi di più. Per comunicarci quanto è difficile a voce comunicare. Diari, storie di vita, meditazioni, possono entrare nelle relazioni di cura, per svelare quanto soltanto una poesia di ringraziamento, un ricordo, un motto di spirito ci aiutano a rendere più umana la relazione. In queste carte circola il silenzio, è lezione di intimità e di umanità che mette tra parentesi il ruoli professionali e le dischiude a qualcosa di più profondo. Di più semplice, spontaneo e più grande. Come non imparare da quella paziente che chiese al proprio medico di stare zitto “ e di osservare insieme il giardino di là dalla finestra”? Che non cercava altro che: “questo silenzioso riconoscimento. “ Dove c’ è qualcuno che non chiede di essere guardato, non pretende tanto; però insieme osservano quell’ albero là fuori. Quel corpo, nel suo silenzio, non ha bisogno d’ altro, perché ora il fatto che è l’ non è più occupato dalle parole del medico, premurose certo ma sempre oltre quel corpo”[3] E quel medico per fermare quello sguardo senza parole, ma eloquente, ora ne ha scritto e, almeno per lui, quell’ incontro sarà memorabile. Grazie alla scrittura che si ciba del silenzio ridonandolo a chi scrive e a chi legge.
*Duccio Demetrio è professore ordinario di Filosofia dell’ educazione e di Teorie e pratiche della narrazione all’ Università degli studi di Milano. Bicocca. E’ fondatore e direttore della Libera Università dell’ Autobiografia di Anghiari( Ar) [1] Si tratta di Angelo Andreotti, scrittore e direttore dei Musei civici di Ferrara, tra i fondatori dell’ Accademia del silenzio, nata nel dicembre dello scorso anno da un’ idea di Duccio Demetrio e di Nicoletta Polla-Mattiot( www.lua.it –Accademia del silenzio).
[2] Per ogni approfondimento: D. Demetrio, La scrittura clinica. Consulenza autobiografica e fragilità esistenziali, Raffaello Cortina, Milano, 2008; in uscita, sempre dell’ autore di questo articolo: Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione. Raffaello Cortina, Milano, 2011.
[3] F. Cimatti, Quando tacere non è un atto comunicativo. Silenzio e pudore del corpo. In, Rivista di Psicoanalisi , 2009, LV, 3, 2009, p.757.