di Giorgio Macario
Ci si sente piccoli piccoli, mentre la nostra voce possente e pulsante passa, in punta di piedi, dai pochi secondi-luce di un pianeta a noi noto ai duemiladuecento anni-luce di una stella semisconosciuta.
Si naviga con disinvoltura fra stelle alfa e beta –riproposizione alfabetica primordiale – e galassie inenarrabili che si estendono fino ai confini dell’universo.
Si osservano, silenti, punti luminosi nel cielo che si muovono seguendo rotte lineari, ma vengono ignorati in quanto prodotti artificiali dell’ingegno umano.
Un balzo in avanti per l’umanità, meno di un granello di polvere nell’ingranaggio dell’universo.
Si citano invece configurazioni note e meno note che sostano, sfuggenti, nel cielo da millenni.
Dalla costellazione dello scorpione, che manca poco possa pungere per davvero, all’orsa maggiore e l’orsa minore, molto distanti invece dall’immagine del plantigrado a noi famigliare.
Passando per un caravanserraglio celeste disseminato di cigni e giraffe, dove riesce ad emergere un improbabile bovaro che suona una lucente lira.
Tutto è reale, ma a tratti anche surreale.
Duecento miliardi di stelle –tante se ne contano nella via lattea- moltiplicate per cento miliardi di galassie –tante se ne stimano nell’universo percepibile- producono uno spaesamento indicibile,
una quantità incontenibile
e un concetto inafferrabile.
Fino a che lo sbigottimento produce una domanda, infantile più che ingenua: “Ma noi siamo al centro?”
“Né della galassia, né dell’universo!” è la risposta scontata del nostro pastore celeste.
E ciascuno, sorridendo, pensa al suo ‘tutto’ che è quasi un ‘niente’ sperduto nell’infinito.
Ma è quel ‘quasi’, collocato fra il tutto e il niente, che fa la differenza.
Una differenza silenziosa, ma pur sempre una differenza.