Voci silenti, italiane, straniere: donne

Intervento di Daniela Finocchi, ideatrice del Concorso letterario nazionale Lingua Madre alla Maratona del Silenzio – Milano – Casa della Cultura – 9 marzo 2011

Dal sito Lingua Madre dove è possibile anche leggere un breve resoconto della serata

Dalle immagini del booktrailer ai racconti: breve viaggio tra le protagoniste “senza voce” della migrazione femminile, tra senso dell’appartenenza e rinascita simbolica

«Ogni tanto penso alla bisnonna che se anche ho conosciuto per poco tempo mi ha fatto vivere quasi la sua vita intera attraverso i suoi racconti molto più vivi, sani e limpidi dei miei. (…) Mi parlava dei misteri dei fiumi vivi intorno alle foreste, diceva che i fiumi cantavano, suonavano e ballavano e si poteva ascoltare e assistere a questo meraviglioso e misterioso spettacolo senza fare nessun genere di rumori, altrimenti tutto smetteva».

Le parole di Sonia Aimiuwu, finalista della prima edizione del Concorso letterario nazionale Lingua Madre con il racconto Lettera dall’Italia, raccontano di un legame significativo, vitale, fatto di esperienze, racconti e silenzi necessari, tramandati di donna in donna. Alle sue parole si uniscono quelle delle altre autrici, unite nella consapevolezza di appartenere allo stesso sesso.

Il Concorso – lo ricordo – è nato nel 2005, è diretto alle donne straniere residenti in Italia con una sezione per le donne italiane, ed è progetto permanente di Regione Piemonte e Salone Internazionale del Libro di Torino.

E qui ringrazio Duccio Demetrio e Nicoletta Polla Mattiot per aver coinvolto il Concorso Lingua Madre nel progetto del’Accademia del Silenzio, perché quella delle donne è una storia condivisa, a lungo caratterizzata da un silenzio, inteso però come rimozione, svilimento e negazione della soggettività femminile. Un silenzio spesso cercato dalle donne stesse, per sottrarsi all’inautenticità di una lingua a loro “straniera” in quanto lingua della cultura patriarcale.

Non a caso, e come avete visto, si è deciso di ricorrere alle immagini realizzando il booktrailer (nuova forma di promozione editoriale) dei libri sinora pubblicati, declinandolo sui temi portanti del progetto. Immagini che raccontano quel silenzio e lo trasformano in metafora, in elemento significante di relazione.

D’altronde, i racconti che ogni anno arrivano al Concorso, dimostrano che attraverso la scrittura, le donne hanno imparato a dare corpo e senso al silenzio, facendone spazio di comunicazione e possibilità.

Uno spazio che il Concorso Lingua Madre vuole tener vivo e valorizzare, dando voce – proprio tramite i silenzi, le pause, le interruzioni e i ritmi della scrittura – a tutte le donne, di ogni paese e latitudine, e offrendo loro un luogo autentico di espressione e rappresentazione di sé, della realtà e del contesto in cui vivono.

Valorizzare e incentivare la relazione tra donne, quindi. Per tale ragione la richiesta di scrivere in italiano va intesa come esaltazione dell’intreccio culturale e relazionale e non come forzatura o perdita d’identità. L’italiano, lingua d’elezione e terreno comune di incontro, diviene veicolo espressivo del mondo interiore e la scrittura metafora della ricca e ampia trama genealogica intrecciata dalle donne. Scrittura che si fa atto collettivo, continuità tra le esperienze, generazioni e culture, «vissuto privato che si fa storia, voce unica che diventa voce di tutte» (Mirella Billi, Scrivere se stesse: la negoziazione infinita, in Grafie del sé…p. 23).

La trasformazione che opera per le donne l’atto di narrare porta alla piena consapevolezza di appartenere alla più ampia e variegata comunità femminile, il cui silenzio, per dirla con Marina Zancan, «dice la presenza di una “datità negata”, la realtà di una soggettività “incarcerata nel labirinto dei segni che non le appartengono”, priva di un linguaggio dotato di autonomia significante perché deprivata di una “madre simbolica” che abiti il cielo vuoto dell’eroina» (M. Zancan, Introduzione, in Il cielo vuoto dell’eroina, (a cura di) Paola Azzolini, Bulzoni 2001, p. 11). Proprio dal luogo di rimozione dunque, dove le donne sono state a lungo confinate, esse possono tentare il recupero del rimosso, creando una nuova sintassi del desiderio. Un desiderio riconosciuto spesso attraverso l’ascolto dei propri pensieri e dei silenzi interiori.

«Una donna – scrive Carla Locatelli – entra nella vita di un’altra donna, immagina di essere lei, prova a scrivere attraverso un processo di identificazione/distanza ciò che l’altra ha provato e, attraverso questo passaggio, aggancia parti della propria individualità, porta a galla per via mediata e indiretta, tracce sepolte della propria autobiografia interiore…» (C. Locatelli, L’(auto)biografia: una figura di lettura nella politica co(n)testuale femminista, DWF, n. 3-4(39-40), 1998). Slittamenti continui tra sé e l’altra da sé avvengono così nei testi silenti delle donne. E proprio di tali slittamenti e del conseguente riconoscimento, il booktrailer che abbiamo visto vuol dar conto: all’inizio del video le donne riprese sono distanti. C’è una donna che è ancora davvero straniera, un elemento estraneo nell’inquadratura come nel mondo in cui si muove, circondata dal rumore di fondo di una realtà indifferente e incomprensibile. Dall’altra parte ci sono le donne che la sfida l’hanno vinta e che sanno di non essere più sole. Sembra esserci un abisso fra la prima donna e le altre, sia nelle loro storie sia nelle immagini e nei suoni con cui il booktrailer le racconta. Sembrano tante storie slegate, ogni donna ha la sua vita e nessuna sembra conoscersi. Ma ad unirle idealmente c’è un fiore di magnolia. Un fiore bianco, giunto in Europa dall’America centrale, che gli europei credevano fragile e delicato ma che dimostrò di poter mettere radici anche in climi ostili e diversi da quello d’origine. Nel momento in cui la donna lo raccoglie, ai rumori sconnessi di una realtà ostile può sostituirsi la musica e l’armonia che faceva da colonna sonora alle altre storie. La magnolia è simbolo di dignità e perseveranza, è una rivendicazione di forza, nel rispetto delle differenze culturali e della differenza sessuale. Condividendolo, le donne che hanno vinto la sfida possono mostrare che ciò che sembra destinato alla sconfitta può trasformarsi in una vittoria, se c’è la consapevolezza di non essere sole, se vite lontane si legano l’una all’altra.

Forse a questo allude Carolyn Hilbrun quando include tra i quattro modi in cui si può “scrivere la vita di una donna” quello della figura di “una donna che può scrivere la sua vita ancor prima di averla vissuta, inconsciamente, senza riconoscere né dare nome al processo che mette in atto” (C. Hilbrun, Scrivere la vita di una donna, La Tartaruga, Milano 1990, p.5).

In questo quadro, il corpo materno, in quanto memoria dell’origine, memoria simbolica, si fa principio di una rete, di una catena di rimandi con le donne della propria famiglia e con le altre, amiche o madri simboliche, indispensabile alle donne per sentirsi autorizzate a muoversi liberamente nel mondo. Lo racconta tra le righe Masal Pas Bagdadi, altra autrice del Concorso, nel suo racconto Di mamma in mamma, pubblicato in Lingua Madre Duemiladieci – Racconti di donne straniere in Italia (ed. Seb 27):

«Spesso parlavo in seduta di mia madre e la nostalgia di lei mi travolgeva ogni volta che la rievocavo. (…) Continuavo a parlare di mia madre raccontando qualche cosa. Piangevo. I singhiozzi mi impedivano di parlare. Mi sentivo piccola…

L’analista mi chiese: «Come mai hai ancora bisogno della mamma, ora che sei diventata tu mamma?». Non aspettandomi una domanda del genere, rimasi in silenzio, un po’ ferita.

(…) A volte, nel silenzio della mia solitudine, mi esercitavo a pronunciare la parola “mamma” in ebraico, a volte in italiano o a volte perfino in arabo. Dicevo mamma più volte: “Mamma (italiano), imma (ebraico) immi (arabo)”, come se potessi dimenticare questa parola o, ancora peggio, perdere la memoria di colei che ne incarnava l’immagine. Avevo paura che se non l’avessi ripetuta costantemente, la sua immagine sarebbe potuta addirittura sparire dalla mia mente, perdendo la capacità di rievocarla.

La sola idea bastava a terrorizzarmi…».

Il recupero dell’origine e della relazione significativa con la madre per le donne diviene un passaggio obbligato, necessario per recuperare un autonomo ordine simbolico, alternativo al sistema linguistico “sessuato” al maschile. Nel desiderio di affermarsi e di ri-appropriarsi del linguaggio, le donne fanno dunque i conti con i vuoti o meglio con le rimozioni del linguaggio stesso, per costruirne uno alternativo, in cui accogliere l’alterità. Solo così, il testo silente delle donne può aprirsi a infinite possibilità, in cui proprio il silenzio diviene valore positivo e presupposto essenziale per il dispiegarsi della coscienza individuale e collettiva.